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ELEZIONI EUROPEE, CORSA DEI CANDIDATI CONTRO LE SIRENE ASTENSIONISTE

ELEZIONI EUROPEE, CORSA DEI CANDIDATI CONTRO LE SIRENE ASTENSIONISTE

Tira una brutta aria sui candidati “ufficiali” alla presidenza della Commissione europea. Le virgolette sono quanto mai d’obbligo, se è vero che la manovra di accerchiamento per annacquare il tentativo di queste elezioni di dare a se stesse e all’Ue un minimo di credibilità, è ormai palese. Giorni fa Angela Merkel aveva invitato a non dare troppo per scontato l’automatismo sulla designazione del capo dell’esecutivo Ue (il candidato del partito che ottiene più voti è di fatto proposto al Parlamento dal Consiglio): “Occorreranno certamente alcune settimane prima di poter prendere le decisioni necessarie”, aveva detto la cancelliera. Al sito Nu.nlsi è poi fatto sentire direttamente il premier olandese Mark Rutte, precisando che il sostegno del Consiglio ai uno dei candidati “è possibile, ma non automatico”. Il elezioni2014Consiglio europeo, infatti, precisa Rutte, “non si è mai impegnato per sostenere i candidati”. Il primo ministro olandese parla di”elezione inventata” dai gruppi politici Ue: “E’ il Consiglio che nomina, non il Parlamento, che può dire solo sì o no. E’ possibile che si arriverà a un confronto duro tra Consiglio e Parlamento, ma questo non ci spaventa”.
E sull’argomento è tornata proprio Frau Merkel, che in un’intervista al Leipziger Volkszeitung sembra aver definitivamente messo la parola fine sull’idea che il successore di Barroso possa uscire dal ventaglio Juncker-Schulz-Verhofstatd-Tsipras-Keller: “Il Trattato di Lisbona dice chiaramente che spetta ai capi di Stato e di governo nominare il presidente della Commissione”, scandisce Merkel, zittendo di fatto il suo vice, Sigmar Gabriel, che aveva invece sostenuto che la mancata nomina di uno dei candidati “sarebbe un disastro per la democrazia europea”.  Un disastro al quale i notabili Ue vanno consapevolmente incontro, a giudicare dal candore di uno come Herman VanRompuy, presidente stabile (in uscita) del Consiglio Ue, che parlando alla televisione fiamminga Vrt ha chiuso il cerchio ammettendo di “non escludere che il futuro presidente della Commissione possa essere un outsider rispetto ai cinque candidati”. E l’outsider che va per la maggiore, come si sa, è Christine Lagarde, presidente del Fmi, ma occhio anche all’attuale premier danese, la signora Helle Thornig-Schmidt. Che sia “ufficiale” o no, il designato a Palazzo Berlaymont, afferma Van Rompuy dovrà avere 375 voti al Parlamento europeo e “una larga maggioranza al Consiglio”.
Insomma, a pochi giorni dal voto, le grandi capitali europee, all’apparenza sonnacchiose e distaccate, tornano prepotentemente in partita e rimettono le mani sul giocattolo Ue, dopo aver lasciato sfogare i candidati in una campagna elettorale non così straordinariamente brillante, ma che aveva comunque fatto sperare in un’Europa più vicina ai suoi cittadini. Il messaggio è ancora una volta evidente: comanda il Consiglio, e così sia. All’orizzonte, il rischio della maxi astensione al voto si fa sempre più concreto. E a proposito di “larga maggioranza”, è proprio su essa che si fondano non pochi interrogativi legati al Regno Unito e a quello che deciderà in seno al Consiglio nella scelta del successore di Barroso. E’ certo, per esempio, come sostiene il Times, che David Cameron sta facendo e farà di tutto per bloccare la corsa di Martin Shultz, considerato l’elemento più pericoloso perché in grado, una volta alla guida della Commissione, di indebolire se non rimandare al mittente il piano del primo ministro inglese di rinegoziare con Bruxelles alcuni poteri che Londra si vorrebbe riprendere, con la prospettiva di un referendum sull’Europa nel 2017 anche alla luce delle non poche micce accese dal Cancelliere dello Scacchiere Osborne che ha posto l’aut aut (“o l’Europa si riforma o la Gran Bretagna esce dai 28”). E se Schulz è inviso anche ai laburisti (ecco perché l’ex Kapò di berlusconiana memoria ha fatto campagna elettorale un po’ ovunque tranne che Oltremanica), ai conservatori britannici non fa impazzire neanche Juncker, che non hanno votato neanche al congresso del Ppe di Dublino non fosse altro perché sono fuori dal gruppo Popolare.
Ma il tentativo di Cameron di voler affrancare la Gran Bretagna da un’Unione “sempre più stretta”, è stato bollato dal governo tedesco come “un disperato tentativo di fermare l’ascesa dell’Ukip”, il partito euroscettico guidato da Nigel Farage che alcuni sondaggi (come quello commissionato dall’Independent on Sunday) vedono addirittura come il primo partito con il 35% dei consensi, davanti a laburisti (24) e conservatori (20), mentre altri (Sunday Telegraph) parlano di un testa con i conservatori, al 26% contro il 25 di Farage, con il Labour a comandare il gioco con il 29%. In questa incertezza generale oggi si comincia a votare: iniziano proprio Gran Bretagna e Olanda. Nei Paesi Bassi i sondaggi danno in testa il Pvv di Geert Wilders, autore nelle ultime ore di un gesto provocatorio davanti alla sede del Parlamento europeo a Bruxelles. Dopo aver ritagliato con le forbici una delle dodici stelle gialle dalla bandiera europea, ha poi srotolato la bandiera olandese: come a dire, se vinciamo noi l’Olanda esce dall’Ue, “riguadagna la sua sovranità e chiude le frontiere a immigrati e richiedenti asilo”. Secondo le previsioni, ai cartellianti Ue (Pvv, Front National francese e gli ungheresi di Jobbik) potrebbero andare circa 135 eurodeputati, non un numero tale cioè da condizionare gli equilibri dell’Eurocamera. E a rendere ancora più complesso lo scenario, sottolineano i sondaggisti, resta da capire la collocazione di nuove formazioni, come il Movimento Cinque Stelle e Ano 2011, quest’ultima data per vincitrice assoluta nella Repubblica Ceca. Intanto Jean Claude Juncker, ribadendo “che l’indipendenza della Bce è importante”, ha sottolineato che la “Commissione europea può proporre dei cambiamenti negli orientamenti generali” dell’Eurotower, per esempio nel caso in cui “il tasso di cambio dell’euro diventa troppo forte”.
(dal sito di Conquiste del Lavoro)

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